17 ottobre 2018 - 07:03

Libia, quanti migranti sono pronti a partire per l’Europa

di Lorenzo Cremonesi

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Prima di tutto la domanda centrale: quanti sono i migranti in Libia e quanti cercano di arrivare in Italia? La risposta non può essere che approssimativa, vista la situazione di caos violento in cui versa il Paese. Ma, dopo avere consultato gli inviati dell’Onu in loco oltre ai funzionari del ministero dell’interno a Tripoli, è possibile stimare circa 700.000, in maggioranza giovani uomini di età compresa tra i 18 e 30 anni provenienti dall’Africa sub-sahariana. Di questi oltre 200.000 sperano di potersi imbarcare illegalmente alla volta dell’Italia, o comunque delle coste europee, nel prossimo futuro.
La grande maggioranza non vorrebbe insediarsi nel nostro Paese, ma cerca di raggiungere Francia, Germania e i Paesi del nord Europa. Non mancano quelli che chiedono asilo politico, specie dal Sudan, Somalia e dall’Eritrea, questi ultimi spesso ammettono di essere partiti per evitare il servizio militare. La legislazione italiana si sta facendo molto più rigida nei confronti delle domande di asilo politico, quest’estate secondo i dati forniti dal Viminale era accettato tra il 7 e 9 per cento delle richieste.
Ma occorre anche registrare la presenza storica di lavoratori stranieri in Libia non necessariamente orientati a partire per l’Europa. Ai tempi di Gheddafi e del benessere generato dell’export energetico superavano i tre milioni (su meno di sei milioni di cittadini libici), con una forte componente di egiziani. Oggi i funzionari governativi del ministero della Sanità a Tripoli stimano siano sul mezzo milione, quasi tutti africani, disposti ad adattarsi al precariato dei lavoretti temporanei e pronti a fare la spola con i loro Paesi d’origine lungo le strade del deserto. In Niger le agenzie Onu segnalano che molti di loro hanno accettato i programmi di rimpatrio coordinati da Niamey. Ma i viaggi di ritorno alle loro case sono lunghi e complessi, anche a causa delle difficoltà di coordinamento con i diplomatici dei Paesi africani di origine dei migranti.
Il crollo delle partenze

Dal luglio dell’anno scorso, specie dopo gli sforzi dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti per accordarsi con le tribù locali, con le loro milizie che cooperano con i trafficanti di esseri umani e soprattutto a seguito dell’impegno italiano per rafforzare la guardia costiera libica, i numeri degli sbarchi sono diminuiti. Secondo le statistiche fornite dal ministero degli Interni a Roma, nel 2017 erano stati 109.684, nel 2016 la cifra era 145.172. Quest’anno, dopo le chiusure volute dal ministro Matteo Salvini, compreso il blocco dei porti e le difficoltà poste alle navi delle organizzazioni non governative, gli sbarchi sono crollati: da gennaio all’ultima data monitorata il 15 ottobre i migranti sbarcati in Italia sono 21.712, di cui 12.465 partiti dalla Libia. Un calo del 87,50 per cento rispetto al 2017 e del 91,41 rispetto al 2016. Ancora quest’anno (sempre a data 15 ottobre) sono i tunisini a costituire la maggioranza degli arrivati con 4.753 persone, seguiti da 3.077 eritrei, 1.596 sudanesi, 1.487 iracheni e 1.353 pakistani. Il 71 per cento delle persone arrivate alle nostre coste è di sesso maschile, le donne sono il 9 per cento, il 20 per cento sarebbero minori non accompagnati (ma non sempre sono verificabili i dati anagrafici dichiarati).

Le nuove rotte

Le chiusure italiane hanno inevitabilmente dirottato le partenze verso altri approdi, specie in Spagna (43.000 al 30 settembre 2018) e Grecia (23.000). Anche la rotta balcanica sembra in ripresa. Quest’anno già 6.500 persone sarebbero entrate in Bosnia contro le 700 dell’intero 2017. C’è da aggiungere che, dopo aver visto con i nostro occhi alcuni dei luoghi di partenza sulla costa libica compresa tra Tripoli e Misurata, non è detto che le statistiche italiane siano complete. È infatti possibile che un certo numero di migranti arrivi alle nostre coste senza essere intercettato e quindi monitorato dalle nostre autorità. Quanti siano questi «clandestini totali» in arrivo via mare da Libia, Marocco e Tunisia non è al momento possibile verificare.

Il caos libico

La situazione libica resta comunque talmente grave e destabilizzata che continua ad interessarci molto da vicino. Il blocco delle rotte verso l’Italia e la mancanza di ben organizzati sistemi di salvataggio in mare sta per esempio comportando la crescita degli annegati e riportando il conteggio delle vittime a forse superare le stragi nei naufragi del 2013-2015. I responsabili dei guardia costa libici a Tripoli, Khoms e Misurata ammettono apertamente di non avere il carburante e i pezzi di ricambio che garantiscono i regolari pattugliamenti delle loro barche, incluse le quattro donate dall’Italia agli inizi estate 2017. Risultato? «Oggi la media dei decessi oscilla attorno al 8-10 percento delle partenze», spiegano. A loro dire, comunque la presenza delle navi delle organizzazioni non governative internazionali di fronte alle acque territoriali libiche in passato ha costituito senza ombra di dubbio uno stimolo fondamentale per i flussi migratori. Gli scontri tra milizie nella regione della capitale iniziati a fine agosto hanno come conseguenza diretta che dai primi di settembre larga parte dei mari della Tripolitania non sono più pattugliati dai guardia costa locali.

I morti in mare

«Dal primo Sos lanciato per esempio da un tratto di mare a 30 o 40 chilometri dalla terraferma può avvenire che trascorrano anche 8 ore prima che un nostro battello riesca a raggiungere il luogo dell’allarme», dice in particolare il responsabile del porto di Khoms. Dal gennaio 2018 circa 13.200 sono stati «salvati» dai libici in mare. I morti accertati superano quota 1.150. E il dato è in continua lievitazione.

Va aggiunto che tanti decessi avvengono sulle rotte della disperazione in pieno deserto, dove anche le violenze sessuali da parte dei trafficanti locali siano all’ordine del giorno. I migranti a Tripoli ci hanno raccontato di aver visto diversi cadaveri durante le loro infinite giornate di marcia sulla sabbia. Un fenomeno nuovo è la crescita della presenza di civili libici anche benestanti disposti a pagare oltre 10.000 dollari a testa pur di scappare dal caos locale a bordo di veloci barche in vetroresina e percorrere in meno di 24 ore i 450 chilometri di Mediterraneo che conducono alla Sicilia.
I rimpatri

Comunque, per i migranti riportati a terra è l’inizio di un nuovo calvario, e soltanto una parte di essi viene ospitata dai centri di detenzione ufficiali. Questi sono una decina e contengono a seconda dei momenti tra le 4.000 e 6.000 persone. Tra loro operano in modo costante gli ufficiali dell’Unhcr, che è l’agenzia Onu per i profughi, e lo Iom, che è l’ente che si occupa di assistere le migrazioni e specialmente i rimpatri. A Tripoli gli ufficiali internazionali dello Iom specificano che dal gennaio 2017 i rimpatri di volontari ai Paesi di origine con voli organizzati dall’Onu sono stati quasi 32.000. Nel solo 2018 la cifra supera quota 12.000 per profughi arrivati da 32 Paesi, con una presenza massiccia di persone giunte da Nigeria, Niger, Ciad, Costa D’Avorio, Sudan e Mali.

I centri dell’orrore

Ma il vero dramma riguarda le decine di migliaia tenuti prigionieri nei campi delle milizie libiche che operano in combutta con i trafficanti di esseri umani. Tra loro si trovano banditi dei Paesi d’origine dei migranti, ma anche gruppi delle tribù Tuareg e Tebu libiche. Uno dei luoghi più terrificanti è Bani Walid, una cittadina posta un centinaio di chilometri a sud della capitale e abitata da tribù legate al vecchio regime di Gheddafi, dove almeno 7 milizie armate si fanno guerra aperta per il controllo dei traffici. «I signorotti libici utilizzano manovalanza e mercenari africani per farsi la guerra. Il nostro ospedale registra una media di almeno 30 morti violente al giorno. Il fatto grave è che i nostri giovani ormai sono abituati al denaro facile ricavato cooperando con i trafficanti e non vogliono assolutamente rinunciarvi», ci racconta il sindaco Ali Ambark Astew. Anche alla periferia di Tripoli, specie dove oggi si sta combattendo, sono situate diverse prigioni di milizie grandi e piccole. Molte sono poste nelle vecchie fattorie e ville di lusso circondate da mura massicce del clan Gheddafi, dove sono chiusi con la forza e obbligati a lavorare come schiavi migliaia di migranti le cui sorti sono sconosciute. È qui che imperano torture, violenze sessuali contro donne e minori. «In questi luoghi dell’orrore l’Onu e le agenzie umanitarie locali o internazionali non hanno mai messo piede. Abbiamo calcolato che ogni 100 dollari stanziati al quartier generale Onu di New York per le sue agenzie in Libia mediamente solo 11 dollari raggiungono realmente i migranti», dice Adel el Taguri, alto responsabile del ministero della Sanità a Tripoli.

Che fare?

Non ci sono soluzioni facili, e quelle davvero significative necessitano di una strategia europea. Ma sino ad ora proprio la mancanza di una condivisa e coerente politica nei confronti delle migrazioni sta creando danni immensi all’Europa, tanto da minarne la stessa unità interna. L’inazione e la passività degli organismi europei sono state tra le origini della Brexit e dei nuovi movimenti xenofobi in tutto il continente.

Una prima soluzione potrebbe essere la creazione di rappresentanze Ue in tutti i Paesi interessati alla partenza e al transito dei migranti, dove questi possano presentare le loro domande di visto senza alimentare il business oggi monopolio delle bande di trafficanti d’esseri umani. Ma occorre prima che Bruxelles si accordi sui criteri comuni dell’accoglienza e sulle quote da distribuire tra i 28 Paesi Ue. Una visione di più lungo periodo mirata ad affrontare di petto il fenomeno è quella di «aiutare l’Africa ad aiutarsi da sola» finanziando dove possibile iniziative economiche che creino posti di lavoro e per conseguenza rallentino il flusso dei migranti economici. In questo senso si muove anche il progetto di un «piano Marshall» europeo per l’Africa annunciato dal presidente del parlamento europeo, Antonio Tajani, durante la sua ultima visita il 17 luglio 2018 in Niger. Il progetto è che l’Europa stanzi 44 miliardi di Euro per i prossimi anni. Però da allora l’iniziativa langue in attesa di eventuali conferme dopo le prossime elezioni europee.
*Una versione precedente di questo articolo sosteneva per errore che durante l’estate fosse stato accettato tra il 5 e il 7 per cento delle domande di asilo politico e per ragioni umanitarie. In realtà si tratta soltanto di domande di asilo politico e la percentuale è compresa fra il 7 e il 9 per cento. Il totale della domande accettate, comprese quelle per ragioni umanitarie, va dal 28 al 42 per cento.
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