Dal luglio dell’anno scorso, specie dopo gli sforzi dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti per accordarsi con le tribù locali, con le loro milizie che cooperano con i trafficanti di esseri umani e soprattutto a seguito dell’impegno italiano per rafforzare la guardia costiera libica, i numeri degli sbarchi sono diminuiti. Secondo le statistiche fornite dal ministero degli Interni a Roma, nel 2017 erano stati 109.684, nel 2016 la cifra era 145.172. Quest’anno, dopo le chiusure volute dal ministro Matteo Salvini, compreso il blocco dei porti e le difficoltà poste alle navi delle organizzazioni non governative, gli sbarchi sono crollati: da gennaio all’ultima data monitorata il 15 ottobre i migranti sbarcati in Italia sono 21.712, di cui 12.465 partiti dalla Libia. Un calo del 87,50 per cento rispetto al 2017 e del 91,41 rispetto al 2016. Ancora quest’anno (sempre a data 15 ottobre) sono i tunisini a costituire la maggioranza degli arrivati con 4.753 persone, seguiti da 3.077 eritrei, 1.596 sudanesi, 1.487 iracheni e 1.353 pakistani. Il 71 per cento delle persone arrivate alle nostre coste è di sesso maschile, le donne sono il 9 per cento, il 20 per cento sarebbero minori non accompagnati (ma non sempre sono verificabili i dati anagrafici dichiarati).
Le chiusure italiane hanno inevitabilmente dirottato le partenze verso altri approdi, specie in Spagna (43.000 al 30 settembre 2018) e Grecia (23.000). Anche la rotta balcanica sembra in ripresa. Quest’anno già 6.500 persone sarebbero entrate in Bosnia contro le 700 dell’intero 2017. C’è da aggiungere che, dopo aver visto con i nostro occhi alcuni dei luoghi di partenza sulla costa libica compresa tra Tripoli e Misurata, non è detto che le statistiche italiane siano complete. È infatti possibile che un certo numero di migranti arrivi alle nostre coste senza essere intercettato e quindi monitorato dalle nostre autorità. Quanti siano questi «clandestini totali» in arrivo via mare da Libia, Marocco e Tunisia non è al momento possibile verificare.
La situazione libica resta comunque talmente grave e destabilizzata che continua ad interessarci molto da vicino. Il blocco delle rotte verso l’Italia e la mancanza di ben organizzati sistemi di salvataggio in mare sta per esempio comportando la crescita degli annegati e riportando il conteggio delle vittime a forse superare le stragi nei naufragi del 2013-2015. I responsabili dei guardia costa libici a Tripoli, Khoms e Misurata ammettono apertamente di non avere il carburante e i pezzi di ricambio che garantiscono i regolari pattugliamenti delle loro barche, incluse le quattro donate dall’Italia agli inizi estate 2017. Risultato? «Oggi la media dei decessi oscilla attorno al 8-10 percento delle partenze», spiegano. A loro dire, comunque la presenza delle navi delle organizzazioni non governative internazionali di fronte alle acque territoriali libiche in passato ha costituito senza ombra di dubbio uno stimolo fondamentale per i flussi migratori. Gli scontri tra milizie nella regione della capitale iniziati a fine agosto hanno come conseguenza diretta che dai primi di settembre larga parte dei mari della Tripolitania non sono più pattugliati dai guardia costa locali.
«Dal primo Sos lanciato per esempio da un tratto di mare a 30 o 40 chilometri dalla terraferma può avvenire che trascorrano anche 8 ore prima che un nostro battello riesca a raggiungere il luogo dell’allarme», dice in particolare il responsabile del porto di Khoms. Dal gennaio 2018 circa 13.200 sono stati «salvati» dai libici in mare. I morti accertati superano quota 1.150. E il dato è in continua lievitazione.
Comunque, per i migranti riportati a terra è l’inizio di un nuovo calvario, e soltanto una parte di essi viene ospitata dai centri di detenzione ufficiali. Questi sono una decina e contengono a seconda dei momenti tra le 4.000 e 6.000 persone. Tra loro operano in modo costante gli ufficiali dell’Unhcr, che è l’agenzia Onu per i profughi, e lo Iom, che è l’ente che si occupa di assistere le migrazioni e specialmente i rimpatri. A Tripoli gli ufficiali internazionali dello Iom specificano che dal gennaio 2017 i rimpatri di volontari ai Paesi di origine con voli organizzati dall’Onu sono stati quasi 32.000. Nel solo 2018 la cifra supera quota 12.000 per profughi arrivati da 32 Paesi, con una presenza massiccia di persone giunte da Nigeria, Niger, Ciad, Costa D’Avorio, Sudan e Mali.
Ma il vero dramma riguarda le decine di migliaia tenuti prigionieri nei campi delle milizie libiche che operano in combutta con i trafficanti di esseri umani. Tra loro si trovano banditi dei Paesi d’origine dei migranti, ma anche gruppi delle tribù Tuareg e Tebu libiche. Uno dei luoghi più terrificanti è Bani Walid, una cittadina posta un centinaio di chilometri a sud della capitale e abitata da tribù legate al vecchio regime di Gheddafi, dove almeno 7 milizie armate si fanno guerra aperta per il controllo dei traffici. «I signorotti libici utilizzano manovalanza e mercenari africani per farsi la guerra. Il nostro ospedale registra una media di almeno 30 morti violente al giorno. Il fatto grave è che i nostri giovani ormai sono abituati al denaro facile ricavato cooperando con i trafficanti e non vogliono assolutamente rinunciarvi», ci racconta il sindaco Ali Ambark Astew. Anche alla periferia di Tripoli, specie dove oggi si sta combattendo, sono situate diverse prigioni di milizie grandi e piccole. Molte sono poste nelle vecchie fattorie e ville di lusso circondate da mura massicce del clan Gheddafi, dove sono chiusi con la forza e obbligati a lavorare come schiavi migliaia di migranti le cui sorti sono sconosciute. È qui che imperano torture, violenze sessuali contro donne e minori. «In questi luoghi dell’orrore l’Onu e le agenzie umanitarie locali o internazionali non hanno mai messo piede. Abbiamo calcolato che ogni 100 dollari stanziati al quartier generale Onu di New York per le sue agenzie in Libia mediamente solo 11 dollari raggiungono realmente i migranti», dice Adel el Taguri, alto responsabile del ministero della Sanità a Tripoli.
Non ci sono soluzioni facili, e quelle davvero significative necessitano di una strategia europea. Ma sino ad ora proprio la mancanza di una condivisa e coerente politica nei confronti delle migrazioni sta creando danni immensi all’Europa, tanto da minarne la stessa unità interna. L’inazione e la passività degli organismi europei sono state tra le origini della Brexit e dei nuovi movimenti xenofobi in tutto il continente.